sabato 28 febbraio 2015

Giorgina



                                                                               


Cuma 'na cuaa da Bilò ca cipis

i fioeu suta a i finestar murmuran

intant ca ma 'ndurmentu 'na matina da dumeniga

dopu ,na noci pasàa e pinsà a la sira prima

pasà sita sul parapetu dul canal suta a caa sua

cui man ca sa tuchea

e l'acqua ca la curea liscia versu Buscaa

Giorgina

do mes calsett bianchi cun una riga verda

poeu comunciea i gambi

ca 'n dean a perdas 'n duna sutana quadretaa

'na camiseta bianca a mes manighi

suta a dù ogi negar me 'l carbun

Giorgina

te me rubàa ul sogn

ul to parlà l'è 'na musica

'l  tò silensi 'n bursa da  tesor



venerdì 27 febbraio 2015

AVANTI MARSC


La bandera la va

un mundu spurcu

el nos parlà el supera ul tambur

in di cità i putan aumentan

al servisi di industriai o militar

e vedum murìi genti de bona vuluntà

ignuranti furbi

morti pà ul mundu cà vegnn

avanti. Marsc



ARTUHR RIMBAUD

giovedì 26 febbraio 2015

a la vigna



                                                                           


'ndà a la vigna l'é dur

sul suciu l'é un desertu

ul fiascu du l'acqua anca a l'umbra l'é coldu

suta al So ca ta brusa i spall misdì al ria poeu

gha ria la mama

l'e ura da mangià

ul cunili vansà duminiga l'é bun 'na scigula fresca da cunturn

la feta da pan gialdu

la finis pastu

a l'umbra dul Saras sa sta ben

me Pà 'l dormi

l'ha fumaa no nanca ul tuscan

'l sa riposa

rivaa a sira lé lunga

mercoledì 25 febbraio 2015

Racconto del mercoledì BENEDETTO

Benedetto si girò a guardare l’uscio di casa per l’ultima vota,  incrociò lo sguardo di sua madre e trattenne le lacrime che da li a poco avrebbero rotto gli argini di ogni ritegno.
     Lo sguardo attonito delle sorelle era inchiodato sulla scena. Benedetto aveva appena annunciato un proposito fermo e loro erano consapevoli che quanto stava per compiersi sarebbe stato irreversibile e avrebbe cambiato la vita di tutti per sempre.
     Lucia era ancora una bimbetta e si era aggrappata alla sua gamba con le lacrime agli occhi. Sperava di trattenerlo, cercava dentro se stessa una forza improbabile per arrestare il corso degli eventi che stavano per compiersi.
   Non andartene via Benedetto”,  lo supplicava a desistere, a non lasciarla da sola, a tornare sui suoi passi.
     Lucia non aveva ancora undici anni quando Benedetto decise di andarsene per sempre. Capì anche lei che non avrebbe più rivisto suo fratello quando Benedetto suggellò con gestualità perentoria ciò che nessuna parola avrebbe potuto meglio sintetizzare le sue intenzioni.
     Andava “alla Merica” un luogo lontano più della Luna perché, a differenza di questa, non si poteva neanche vedere.
     Benedetto si piegò sulle ginocchia, prese Lucia tra le braccia e la strinse forte a sé  baciando le sue guance rubiconde e le lacrime l’ebbero vinta. Rimase così con gli occhi chiusi per qualche momento, poi stacco le braccia della bambina dal collo e  col piede tracciò lentamente per terra un segno di croce.
     Tranquillizzò Lucia accarezzandole i capelli arruffati mentre sussurrava che non l’avrebbe mai dimenticata. Guardò sua madre per l’ultima volta con gli occhi ancora gonfi di pianto e disse le ultime cose che l’intera famiglia non avrebbe mai più dimenticato: “Diglielo tu a mio padre che ci rivedremo dopo la morte se la morte saprà cancellare ogni reciproco risentimento”.
     Si mise a tracolla la sua bisaccia con dentro le poche cose che aveva, infilò dentro il tozzo di pane e i fichi secchi che sua madre porgeva, poi abbozzò un saluto con la mano e si allontanò di corsa verso suo destino.

      Benedetto era il primogenito di otto figli e a Tuglie ci abitava ormai da quindici d’anni, da quando suo padre Luigi, il mio bisnonno, decise di lasciare  Palmariggi, il suo paese natale, per scappare dalla vergogna di essere guardato come discendente di un nobile decaduto per colpa del vizio e del gioco.
     Mia nonna mi raccontava nelle silenziose serate d’inverno, quando lo scoppiettio dell’ulivo che ardeva nel grande camino sottolineava come colonna sonora gli eventi rievocati dalla sua voce tremante, che suo nonno era un barone e che in una notte dilapidò un’intera fortuna.
     Bruciò in una sola notte denaro, terre e ogni altro avere. Avrebbe anche puntato la moglie sul tavolo del gioco se questa non si fosse energicamente opposta. Finì la vita mendicando tra i nobili suoi pari senza pentirsi mai delle sue azioni scellerate.  “Guardate il mio stato” esordiva quando elemosinava rivendicando un rango al quale non rinunciò mai fino alla fine dei suoi giorni.
     I miei bisnonni vennero ad abitare a Tuglie, qualche anno prima dell’inizio del nuovo secolo, con i figli Benedetto, Paolina, Assunta e Apollonia.  A Tuglie invece nacquero poi Antonio, mia nonna Lucia e la sua gemella Marta nel 1902 e infine Luigia nel 1909.
      Il mio bisnonno aveva un alto grado di istruzione; ai tempi circostanza assai singolare.  Fu “maestro” di tanti a Tuglie e, tra l’altro, era anche un bravo artigiano ed esperto nella costruzione di muri a secco, di strade e furneddri.
     Aveva tuttavia la mentalità di un mujaheddin e negò di proposito qualsiasi istruzione alle figlie, stante l’idea che aveva sul ruolo delle donne. Mia nonna imparò a leggere e scrivere di nascosto, usando  i libri che in casa certo non mancavano, ma visse nel dogma dell’infallibilità della Chiesa e delle sue gerarchie inculcate dal padre padrone.
     Benedetto aveva un livello di istruzione eccellente e,  per quanto  ciò  non lo preservasse dalle fatiche e dagli stenti che  flagellavano l'’intera popolazione del sud  reduce dalla disastrosa unità d’Italia, sognava di spiegare le ali verso mondi nuovi. Aveva nel sangue il demone della ribellione, lo sprezzo per le regole ipocrite e bigotte e un senso così compiuto di laicità che sfociava in aperto e sistematico conflitto con suo padre.
     Non esisteva nessuna premessa per posizioni di compromesso nella mente di Benedetto. Detestava Giolitti che aveva appena stretto un patto con le gerarchie ecclesiastiche attraverso l’uomo di fiducia di Pio X, Vincenzo Gentiloni, per arginare qualsiasi rischio di avanzata socialista, marxista e anarchica. Anche la riforma elettorale del 1912, che avrebbe introdotto il suffragio universale riservato solo al sesso maschile, Benedetto la percepiva come un insostenibile imbroglio, come cedimento inconcepibile verso la madre di ogni immoralità: la guerra! Più che "igiene dei popoli", come la definiva Marinetti, la guerra era vista da Benedetto come la bestia immonda nelle mani dei potenti che falcia la vita degli umili.
     Non perdonava ai socialisti di aver barattato con Giolitti la promessa del suffragio universale maschile in cambio di  una posizione conciliante sulla guerra  italo-turca (nota anche come guerra di Libia) combattuta dal Regno d'Italia contro l'Impero Ottomano tra il 29 settembre 1911 e il 18 ottobre 1912, per conquistare le regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica.
     Benedetto era nato con la testa generatrice di sogni  in un’era così poco generosa con quelli che lui coltivava nella mente.  La realtà lo inchiodava a una quotidianità senza scampo, a un mondo che percepiva sbagliato e che esercitava su di lui una gravità dalla quale non riusciva a sfuggire e che schiacciava la sua anima con il suo peso.
     Non aveva molti interlocutori e i suoi pensieri spesso restavano confinati negli spazi ideali che la sua mente riusciva a creare.
     Lavorava fianco a fianco con altri giovani di Tuglie nello scavo della collina calcarea sovrastante il paese per aprire alla ferrovia un passaggio nella roccia per abbattere i dislivelli del terreno.  Condivideva con altri coetanei la fatica ma i suoi sogni volavano su latitudini incomprensibili a chi accarezzava sogni più palpabili e indifferibili per il bisogno e per la fame.
     Le condizioni di vita erano severe ed erano amare ancora le conseguenze sull’economia generale del Salento anche a seguito del devastante attacco di  peronospora che aveva distrutto interi raccolti viticoli negli anni precedenti.
     La realizzazione del tratto della ferrovia del capo di Leuca, Nardò-Casarano, lungo il quale sarebbe stata realizzata la stazione a Tuglie, favoriva qualche entusiasmo ma non arrestava il flusso migratorio verso l’America.
     “Mamma mia dammi cento lire, che in America voglio andar...“ cantavano i braccianti nella terra arsa dal sole rovente.
     L'America aveva un significato speciale e più che un luogo geografico rappresentava il sogno di un cambiamento possibile. Bastava solo racimolare il gruzzolo sufficiente per acquistare il biglietto e scappare con la prima nave transoceanica.
     Benedetto non sognava l’America ma la libertà.
     Sognava una libertà che ai tempi non era neanche concepita e che sarebbe apparsa così stravagante da non trovare proseliti neanche tra gli anarchici individualisti più ortodossi.
     Sognava di liberarsi dai luoghi e dal tempo che lo inchiodavano sulle anguste latitudini di una realtà che lo stritolava. Sognava di ricominciare la vita con regole nuove modulate sul modello di mondo che il suo pensare accarezzava, sognava ambiti di libertà che non si conciliavano con il modo di fare e di pensare di un padre-padrone bigotto che reclamava su di lui diritti indisponibili e inalienabili e che amministrava anche l’aria che lui riusciva a respirare.
     Sognava amori diversi da quelli stereotipati che osservava ogni giorno e legittimati dai riti e dalle consuetudini sociali.
     Benedetto percorreva veloce i sentieri della sua mente e  sorvolava mondi improbabili governati da regole che prendevano forma nei suoi pensieri più intimi. La realtà era insostenibile turbolenza del sogno della vita che programmava.
     Era tuttavia consapevole che le pulsioni esaltate dal suo individualismo sarebbero state  probabilmente senza riscontro e sproporzionate con l’oggettività del destino possibile in un momento in cui il vento di guerra iniziava a soffiare sulla vita di tutti.
     Il sole era quasi allo zenit e era rovente più che mai in quel lunedì 3 giugno del 1913.
     Benedetto e suo padre, per poco più di una lira a giornata, lavoravano la terra infestata dall’erba per prepararla alle nuove colture, in qualità di braccianti.
     I braccianti discutevano grossolanamente sulla legge che aveva introdotto il suffragio universale maschile,  approvata pochi giorni prima dal Senato. Più che opinioni sembrava una sagra dei luoghi comuni.
     Benedetto sciolse le briglie al suo pensiero libero che spagliò velocemente in un alterco irreversibile con suo padre.
     In un attimo decise che non avrebbe più sopportato, che quello era il momento di essere coerente con i pensieri e i sogni che coltivava da sempre. Scagliò la zappa che aveva in mano e scappò via sapendo che sarebbe stato per sempre.

     Quando Benedetto girò l’angolo con la sua bisaccia a tracolla, mia nonna sperava che il fratello più amato sarebbe rientrato prima del tramonto come faceva ogni sera.  Non smise mai di aspettarlo fino a quando non seppe della la sua morte nel 1944.

     A Tuglie esisteva in quegli anni una succursale della Compagnia Fabre di Navigazione. Fu tramite questa che Benedetto riuscì ad ottenere i documenti necessari per l’espatrio.
     No so come abbia potuto racimolare il denaro necessario per i biglietto che costava una vera fortuna.  Il prezzo era compreso tra centocinquanta e centonovanta lire; almeno cinque mesi di lavoro.
     Partì da Gallipoli per raggiungere il porto di Napoli dove si sarebbe imbarcato sulla nave RE d’ITALIA per raggiungere l’America.

     La nave era stata costruita a Sunderland, in Inghilterra dalla compagnia di Sir James Laing.  Era lunga 131 metri e larga 16, con una stazza di 6560 tonnellate. Raggiungeva i 14 nodi di velocità ed era in grado di ospitare 2020 passeggeri, 1900 dei quali di terza classe. Erano però molte più di 1900 le anime sul punte e nella stiva della Re D’Italia che stringevano i denti e pensavano che anche questa sofferenza era ricompressa nel prezzo da pagare per raggiungere la terra sognata: la “Merica” .
     Erano pochi i viaggiatori di prima e seconda. Il carico umano era convogliato
negli alloggiamenti collettivi e  popolari di terza classe. Gli ambienti riservati agli emigranti costringevano a condizioni di vita precarie, con un’igiene approssimativa, una promiscuità disumana. Era concreto il rischio di malattie, e nel passato non erano stati pochi i casi di epidemie scoppiate a bordo.
     Anche la traversata contemplava una serie di pericoli  legati alle difficoltà della navigazione. Era già accaduto che viaggi della speranza si fossero conclusi tragicamente anche con il naufragio. D’altra parte era passato appena un anno dall’affondamento del Titanic costruito per lanciare una sfida diretta anche a Poseidone.

     Benedetto sognava una libertà che si coniugasse con i sogni. Con le mani incrociate dietro alla nuca sfidava il vento a prua mentre nella mente prendevano forma fotogrammi della sua vita.
     Non la conosceva lui l’America ma preferiva sognarla a modo suo e nei sogni, si sa, non esistono linee nette di demarcazione. Oscillavano i suoi pensieri tra il ricordo della vita già vissuta e il progetto sfumato della vita che stava osando progettare.
     Si accavallavano i sogni aleatori del futuro appena abbozzato nei contorni sfumati tracciati dalla fantasia e le emozioni forti della ribellione che aveva sempre avuto dentro.
     Gli  attimi che viveva erano già la sua vita e non si curava del vento che gli sferzava il viso e delle lacrime che fuoriuscivano degli occhi arrossati e che venivano spinte dal vento fino a solcargli le guance.
     L’ultimo litigio con suo padre, lo sguardo di sua madre e la mani di mia nonna inutilmente artigliate nella sua carne per trattenerlo, attraversavano la sua mente e i ricordi si fondevano con i sogni e i sogni stanavano altri ricordi. Fotogrammi di memoria nella mente che duravano il tempo di un battito di ciglia ma in una sequenza continua, circolare che non trascurava un solo attimo del suo vissuto.
     L’eccitazione cedeva di tanto in tanto alla stanchezza e si appisolava per il tempo che bastava a rigenerare le risorse che poi spendeva ancora a inseguire pensieri.

     Ripensava a “Canne al Vento” di Grazia Deledda, il romanzo appena letto a puntate su “Illustrazione italiana”  e ripeteva ormai a memoria: “..siamo proprio come canne al vento. Siamo le canne e la sorte è il vento”, e la sua sorte Benedetto la percepiva, il suo destino era la strada che aveva scelto di percorrere a qualsiasi costo.

     Giorno dopo giorno la Re D’Italia macinava centinaia di miglia infierendo all’oceano una ferita spumeggiante.  Delfini festosi accompagnavano la nave già dallo stretto di Gibilterra.  Facevano capolino all’improvviso dal profondo dal mare per poi infilzare le onde eterne e indifferenti ad ogni umano evento.
     Il sole sorgeva silenzioso come ogni mattina e si alzava in cielo tracciando un arco che variava a seconda della latitudine per poi insanguinare a ovest l’orizzonte tremolante dove c’era l’America ad aspettare.
     La notte era la una striscia d’argento sulle acque sconosciute e misteriose a fare la ruffiana con le fantasie di Benedetto.

     Giorno dopo giorno l’America s’avvicinava e peggioravano a bordo le condizioni igieniche: i dormitori s’insudiciavano e venivano spazzati con segatura, l’odore di disinfettante violentava la brezza mattutina del mare, molti  i bimbi denutriti straziati dalla stanchezza o che piangevano sconsolati.
     “Il sogno dell’America vale per ognuna di queste persone tanti sforzi?” si domandava spesso Benedetto conoscendo la risposta che lui aveva già dato a questa domanda nelle notti insonni a guardare la luna.


     “Ecco, eccola l’America”!
     Il ventesimo giorno di navigazione, poco prima del tramonto, ruppe così il silenzio la voce di una ragazza con gli occhi che avevano il colore del bosco profondo e lunghi  capelli dal colore del mogano.
     L’America! Sospirarono in tanti e qualcuno non si preoccupò di nascondere le lacrime.

     L’ A M E R I C A… Benedetto incrociò lo sguardo della ragazzina e sentì la vita che scoppiava dentro. Avrebbe voluto avvolgersi tra le mani i suoi lunghi capelli setosi e stringere a se quella creatura ma si limitò a chiedergli il nome balbettando.
     “Come ti chiami occhi di bosco?”
     “Marietta” rispose la ragazza con voce maliziosa sfoderando un sorriso ruffiano come il tramonto che in quel momento si esibiva all’orizzonte insanguinando il cielo sconosciuto dell’America.
     Benedetto accenno un gesto con la mano per accarezzarle i capelli setosi mentre lei, accentuando il sorriso galeotto si dileguava lasciandosi dietro il fruscio leggero della gonna rammendata che penetrò nelle sue viscere e nel cuore come un dardo improvviso e misterioso.

     La nave attraccò a Ellis Island, un isolotto proprio di fronte a Manhattan nella baia naturale in cui è situato il porto di New York, venerdì 8 agosto 1913 con la statua della libertà che guardava in altra direzione,  indifferente della sorte e delle emozioni del carico umano che la nave trasportava.
     L’Isola delle lacrime, come sarebbe stata poi denominata Ellis Island, dal poeta francese Georges Perec, era  la più grande stazione di smistamento degli immigrati.
     Il governo americano usava metodi ferrei e disumani per controllare il flusso migratorio. Era l’estrazione sociale dei naviganti a fare "la differenza" e quando le navi entravano nel porto di New York, i passeggeri di prima e seconda classe venivano ispezionati nelle loro cabine e scortati a terra da ufficiali dell'immigrazione. I passeggeri di terza classe invece subivano  le peggiori umiliazioni.
     Si eseguivano meticolosi controlli per eliminare gli indesiderabili e i malati. I medici accertavano soprattutto "le malattie ripugnanti e contagiose" e le malattie mentali. Gli ammalati o i "sospetti" tali venivano marcati sulla schiena con una croce bianca segnata con il gesso, confinati sull'isola per la quarantena oppure reimbarcati. I capitani delle navi avevano l'obbligo di riportarli nel porto del paese d'origine.

     La marea umana che arrivava col sogno dell’America si stabiliva essenzialmente a New York. “Little Italy” venne chiamato il quartiere abitato dagli italiani; braccia a buon mercato per il capitalismo senza anima, buone per scavare tunnel o costruire grattacieli.
     E non mancarono neppure gli italiani appena arrivati che si trovarono alla mercè di connazionali senza scrupoli che lucravano sulla pelle dei loro fratelli truffandoli o vendendoli a imprese edili che li sottopagava per lavori massacranti.
     Nella Little Italy l'oltre mezzo milione di italiani si insediò in quegli anni nei decrepiti edifici di legno abbandonati a ridosso del ponte di Brooklyn.
     Assoluta la mancanza di regole che fece la fortuna dei padroni delle case trasformando il  quartiere in un formicaio pregno di miseria, delinquenza, ignoranza e sporcizia.

     Il capitalismo dominava incontrastato sostenuto da un sistema giuridico compiacente. “Darwinismo sociale” era chiamato il principio al quale si richiamava il capitalismo e i suoi sostenitori affermavano che qualsiasi tentativo di regolamentare gli affari avrebbe impedito l’evoluzione naturale delle specie.

     Era questa l’America che si offriva agli immigrati rilasciati dai lager dell’Isola delle lacrime  dove venivano internati prima di ricevere il permesso ufficiale d'ingresso nel Paese.
     Era gente dimenticata dall’Italia che però si rallegrava per l'attivo della bilancia dei pagamenti favorito dalla politica "dell'esportazione delle braccia". Era gente snobbata dai diplomatici che si vergognavano di rappresentare la miseria. Era gente che non faceva notizia neppure quando, essendogli stato negato il permesso per entrare nel Paese, si gettava nelle acque per raggiungere a nuoto New York e spesso così incontrava la morte.

“Quel che io sono venuto ad interrogare qui è l’erranza, la dispersione, la diaspora. Ellis Island per me è il luogo stesso dell’esilio, vale a dire il luogo dell’assenza di luogo, il non luogo, il da nessuna parte; è in questo senso che queste immagini mi riguardano, mi affascinano, mi implicano, come se la ricerca della mia identità passasse dall’approvazione di questo luogo di scarica…” (Georges Perec)
 
     Benedetto l’intravide tra la folla esausta che si confondeva tra i miseri bagagli e la raggiunge col cuore in gola e lo strano sfarfallio nella pancia.
“Ehi Marietta”, e questa volta le strinse la mano gelida e tremante – “Ma la tua famiglia dove è diretta?”
“A Dallas” disse la fanciulla. “Mio padre preferisce trovar lavoro nelle miniere di ferro o carbone del Texas…Sai che chi lavora in miniera potrebbe guadagnare fino a cinque dollari al giorno?”
“Già, ma si può anche morire…”, pensò Benedetto stringendogli la mano un po’ più forte.
     “Io mi fermo qui per il tempo necessario ma giuro che ti raggiungerò a Dallas prima che finisca l’anno” promise Benedetto sfiorando le sue labbra con un timido bacio.

     Benedetto, come tutti,  passò sotto le forche caudine dei controlli. Un funzionario sgarbato lo sottoponeva a una serie di domande compilando la riga numero ventotto del  centoventicinquesimo foglio del “List or manifest of alien passengers for the United States Immigration at porto of arrival”.
-         Cognome: Gorgoni
-         Nome: Benedetto
-         Anni: ventidue
-         Occupazione: farm laborer (lavoratore di campagna alle dipendenze)
-         E’ capace di leggere e scrivere: si
-         Nazionalità: Italiana
-         Razza: Itala sud
-         Ultima residenza stabile: Tuglie
-         Nome e indirizzo completo del parente o amico più vicino nel paese da cui lo straniero proviene: Pezzullo Salvatore – Av. 797
-         Esatto ammontare della somma posseduta: nessuna
-         E’ un poligamo:  No
-         E’ anarchico: No
-         E’ noto per aver compiuto atti immorali: No
-         Condizioni di salute mentale e fisica: buona
-         Malformazioni: natura, durata  causa: Nessuna
-         Stato e luogo di nascita: Palmariggi -  Italia

     Soffiavano ormai forte i venti di guerra quando Benedetto onorò la promessa fatta a Marietta raggiungendola a Dallas.
     Lei lo aspettava e mescolarono i loro sorrisi, fusero insieme le loro speranze e incollarono i loro sogni uno su l’altro per dargli uno spessore più consistente e in grado di resistere agli eventi terribili che stavano per accadere nel mondo.

     Gli anni passarono uno dopo l’altro segnati dai figli che nascevano. Benedetto e Marietta facevano il resoconto della loro vita sintetizzandola nelle parole che una lettera può contenere e lo affidavano al lento via vai delle comunicazioni del tempo.

“Ha scritto Benedetto” diceva mia nonna a suo Padre che anno dopo anno invecchiava con il rimorso e la nostalgia che s’addensava nel petto.
     Quasi alla fine del secondo confitto mondiale arrivò la notizia che Benedetto era morto senza che ne fosse precisato il motivo: era il 1944.
     Mia nonna fece in modo che i suoi genitori non sapessero della morte di Benedetto e continuava a inventare qualcosa da raccontare per non addolorarli.

     Il mio bisnonno cominciò a non star bene e un giorno d’autunno dello stesso anno, quando ormai era allettato da qualche settimana chiamo mia nonna al suo capezzale: “Lucia, è tornato Benedetto” le disse con una voce flebile che finalmente lasciava trasparire umana fragilità.
     Mia nonna ebbe un sussulto. “Come fai a saperlo?” rispose con la voce tremante.
“E’ venuto a trovarmi e a dirmi che è tornato per stare con me per sempre”.
     Sorrise e chiuse gli occhi.
     Due lacrime scivolavano sul cuscino velocemente, strinse la mano che Benedetto porgeva e il cuore si fermo nel petto per sempre.

8 febbraio 2014



 GIUSEPPE   DE   SANTIS
 



lunedì 23 febbraio 2015

Basta !



                                                               


guardé sto paes

cun la genti ca vegnn in straa

Omm Donn

e cantan

caminandu spala spala

guardé sto paes

cal camina sensa fermas

guardé genti sto paes

ricurdevas

ul ventu là cambia la vus

parchè vegnan nò pa dumandàa

vegnan pà di basta.



GIULIO STOCCHI

sabato 21 febbraio 2015

qui di Càa volti



                                                                    


Non c a vivum 'n di Càa volti

visin al Signur

e ul duman 'l cunusum

guardemm ul purtafoi

tuc tesar

bancomat

Gigante

Esselunga

G.S.

Iper

e a faa la spesa vò in piasa mercaa a Castan

da tesar dul purtafoi a 'n drou nò vuna

ma ta fann sintì sciur

droeum i praa

i fiumm

i buschi

l'acqua e l'aria di nost fioeu

vulendu counus la sò eredità

un dìi vervan la bursa e troeuan denn

i cambiai da pagà e insema troeuan

la famm

la sedi

i malatìi



e alura num di Càa volti visin al Signur

cumincium a prigà

venerdì 20 febbraio 2015

vita agra






Ognun l'é 'na storia

g'hé un principi e 'na fin

in mesu ga po' ves tucoss

g'hé  qui ca sa lamenta da la malatia

di midisin di dieti cà'l dei fa

di  fioeu ca fan danàa

da la dona ca ga fa i corni di debit da da pagà

da la genti ca lasa fa

ma in mesu a la vita grama

ogni tan ta se acorgi ca'l vivi var la pena

anca da la parti sbagliàa

ti te vivi la tò storia.

mercoledì 18 febbraio 2015

sensation



                                                                          


SENSATION

ARTUHR  RIMBAUAD





in di seer d'està vò pa i santé

cul furmentu ca 'l pisiga

e l'erba tenera suta i pée

e 'l ventu ma dispetenea i cavei

parlu pù   pensu pù

ma ul ben 'l ma vegnn dul cooeur

e mi vò luntan come un Stroligu dul mundu

cuntentu me 'na femina



marzo 1870

Racconto del mercoledì CECCONE









                                                                            


La carriera di Ceccone nella Torno cominciò con la diga del Vaiont, subito da caposquadra. Allora il merito contava qualcosa,poi sul campo valeva tanto,era fondamentale.

E,non per dire,nel disastro del Vaiont la diga non subì nesssunissimo danno,ed è là ancora che sembra fatta ieri.

Poi in Africa a fare strade con cantieri itineranti,nella boscaglia.

Poi venne la diga sullo Zambesi,enorme,difficile per via delle piene che ogni anno,due volte,portavano via tutto, La Torno finì la diga due anni prima del previsto,in quattro anni, invece dei sei sui quali si era fatto il conto, con un guadagno aggiuntivo di due anni di stipendi e macchinari.

In quegli anni costruimmo la barca.

Nelle ferie accumulate passate al paesello,in una settimana costruimmo la barca.

Ceccone prese dei grandi fogli di compensato dal Gianni che li faceva, e con questi fece la dima. La barca come doveva essere. Li mise assieme come una cosa finita. Li guardò attentamente,corresse alcune linee, e guardò la barca come avrebbe dovuto essere. La guardò per un paio d'ore, e nella sua testa la barca era fatta.

Un suo amico di Buscate che faceva il carpentiere gli

procurò tre fogli di lamiera di 4 cm. E venne con il camion e li scaricò sul greto del Ticino.

Io e Ceccone li tirammo più in qua, e Ceccone prese le dima e con un pezzo di gesso la copiò sulla lamiera.

Con una grande cesoia tagliò seguendo il gesso, con un lungo filo di prolunga, saldò le lamiere e la barca era fatta. Poi un lungo lavoro di flessibile e di carta vetrata per rendere liscio il tutto.

Due mani di minio e la catramina sul fondo,e poi due mani di vernice verde limone. Con scritto in nero: CECCA.

Completata con le assi traverse e il ripostiglio sulla poppa, fatto fare dal Gianni un remo di 4 mt. in legno di

robinia. E la Cecca prese il largo, era agile e molto manovrabile. Lunga otto metri e mezzo a larga uno e mezzo, risaliva anche con pochissima acqua. Un bigieù.

Per una evenienza una sera caricai ventuno persone.

C'erano due Guardiacaccia, due fratelli, si può dire nati

sul Ticino, che sfidati persero una gara contracqua, con la loro barca.

E... la Cecca era la Cecca.

Il pomeriggio,lontano dalle piante, non c'erano insetti, ma fra le piante era pieno. Ceccone, in cerca d'ombra, si sdraiò fra le piante dell'isola per fare un sonnellino, Non puoi stare lì-esclamai- ti mangiano vivo !-

Ceccone fece il suo sonnellino,dopo un po' che era là andai a vedere e in giro a lui c'erano un sacco di tafani morti.

Francesco Mainini,detto Ceccone. Ruolo portante della Torno.

In vespa era un Dio, riusciva su uno sterrato a fare la sua firma con dei colpi di freno,scriveva cecco.

Nessuno voleva andare in vespa con lui, dicevano che era fuori di testa. Io ci andavo molto volentieri perchè era padrone del mezzo e sapeva sempre cosa stava facendo. Per me era un piacere.

Avevamo una amica a Busto che aveva un bar,davanti alla Privativa del Tabacco. Andavamo,ogni tanto, dopo la mezzanotte,fino a mezzanotte c'era la barista,poi andava casa e c'era lei, la Padrona.

Si faceva una gara: io e Ceccone, uno di fronte all'altro, la Pinuccia ci manovrava, il primo che veniva sporcava l'altro che in più doveva pagare la bottiglia di cognac. Da bere come due compagnoni.

In Africa come fai? Gli chiesi un giorno.

Facile, ogni giorno c'è una ragazzina che viene a fare la pulizie.

E se non vuole?

Non vuole mai,ma a insistere...

Ogni giorno una nuova.

Dopo lo Zambesi andò in Cina e dopo 4 anni tornò sposato con una cinese,figlia di un Senatore, più alta di lui.

Ogni tanto la vedo, qua in paese, e parla un dialetto perfetto.

Ha due figli, alti e belli.

Ceccone da un po' non c'è più.

Grazie Ceccone per averti conosciuto.

Ciau.

martedì 17 febbraio 2015

ul dialetu

un me  amis  un  dì  al ma  di
ti te  pensi  in italian  o in   dialetu
subit   ù  pensà  ma  va   fa un culo
e sum  restà  lì  imbalsamaa
in  dialetu  a  lé  fancù
alura   pensi in italian

giovedì 12 febbraio 2015

la Sisania

quan  te ghe  la  Sisania  'n  dul  coeur  te  rasuni  pù
te  disi  e  te  fé   di  robi   ca  te  voeuri  nò
la  Sisania  la  ta  fa  dì di robi  ca  ta   parean  giusti
la  Sisania  l'è   no  inteligenti

mercoledì 11 febbraio 2015

Racconto del mercoledì: ll Marinone



                                                                   

Per fare il Marinone bisogna essere in due,i primi 500 metri li posso fare anche da solo, e ogni tanto li facevo per andare a prendere l'acqua alla fontana del Runcas, così chiamata per un grosso cespuglio di Runcas che vive proprio sopra la fontana. Che non è una fontana ma una polla d'acqua che sgorga copiosa sulla riva del Marinone. Fino a quella sorgente ci arrivavo anche da solo,ma era dura, per andare oltre bisognava essere in due. Se si trovava un'altro rampone si spuntonava in due e si riusciva, se no, con la corrente che c'era,bisognava scendere e tirare la barca,nei punti difficili.

Dopo la grande curva il Marinone tirava diritto,in mezzo ai boschi di castagno dove si andava a fare castagne, piccole ma buone. E lì riposava ogni tanto in slarghi,in invasi che erano il paradiso dei pescatori con trote iridee,pesci persici, e Temoli. Ma quasi nessun pescatore conosceva questi posti, e poi bisognava andarci in barca facendo gran fatica. In questi slarghi c'erano delle piccole spiaggette, a cercarli dei gamberi grigi che a farli cuocere diventavano rossi.

Prima che morisse ci andavo con mio padre.

Dopo ogni slargo una rapida, da risalire tirando la barca con i piedi nell'acqua e i sassi scivolosi che ti rompevano le caviglie.

Posti meravigliosi.

Alla destra una terra di mezzo, fra il Marinone e il Naviglio, che lì è asciutto per il canale industriale che ha preso la sua acqua per fare andare la Centrale di Turbigo,quella vecchia, e poi darla indietro indietro con il Regresso. Alla sinistra il Turbigaccio che è un isola formata dal Marinone e dal Ticino, abitata e coltivata, con campi di mais e allevamenti di bovini e di suini.

Tecnicamente i Marinone è un canale artificiale perchè ha le porte,ma a chiudere le porte 50% di acqua scende lo stesso,per le sorgenti che danno un'acqua fresca e pura che attira i pesci nobili del Ticino. Il Temolo si trova solo nel Marinone. IL Temolo, a vederlo fuori è marrone ma in acqua è nero ed è un pesce velocissimo: appena tocchi l'acqua è a venti metri di distanza, è l'unico pesce che se lo tocchi con la mano poi la mano sà di melone. In quel tratto il Marinone va diritto ma come un fiume: diritto ma sinuoso. Ad un certo punto le piante si incurvano e formano una galleria, come certi viali con gli olmi e l'acqua cheta sembra asfalto e si vede la fine come in fondo a un tunnel. Poi si apre e li c'è il guado,usato per i veicoli che vanno al Turbigaccio. 200 metri più avanti un ponticello di corda che si libra sopra la testa oscillando sopra di noi.

Più avanti di poco, non si vede ma si sente, l'abitazione con le stalle. Andando avanti boschi. A destra e a sinistra boschi di rugura e qualche nocciolo, qualche runcas, qualche rara pianta

di Zizurliti. Sottobosco di lamponi e more.

Dalla terra di mezzo venivano dei rivoli di acqua di sorgenti nel bosco, dei fili di acqua chi si aggrovigliavano serpeggiando tra radici erba e muschio.

Il Marinone ti impegnava sempre con la corrente del dislivello, ma la sfida era bella, contro un campione nel pieno della sua

bellezza.

Quando si era quasi stanchi finalmente si arrivava alle porte. Sempre veniva il dubbio se alzare la barca al di là della porta e scendere sul Ticino o rifare il Marinone in discesa.

Vinceva il Marinone, e scendere era troppo bello, stando attenti ai sassi sporgenti che ti avrebbero rovinata la barca.

E rivedevi un film al contrario, ma più bello.

martedì 10 febbraio 2015

Stamatina 'l  Rosa 'l sa  vedi e 'l sa  vedi no
'l  sa  no  se  fa
mai  vistu  'na  muntagna  tirasela  a quela  manera  lì.

Giorgina






Cuma 'na cuaa da Bilò ca cipis

i fioeu suta a i finestar murmuran

intant ca ma 'ndurmentu 'na matina da dumeniga

dopu ,na noci pasàa e pinsà a la sira prima

pasà sita sul parapetu dul canal suta a caa sua

cui man ca sa tuchea

e l'acqua ca la curea liscia versu Buscaa

Giorgina

do mes calsett bianchi cun una riga verda

poeu comunciea i gambi

ca 'n dean a perdas 'n duna sutana quadretaa

'na camiseta bianca a mes manighi

suta a dù ogi negar me 'l carbun

Giorgina

te me rubàa ul sogn

ul to parlà l'è 'na musica

'lm tò silensi 'n bursa da tesor




































































lunedì 9 febbraio 2015

Torta Paradiso



                                                                    

ciapa  250 g. da  buter  amurbidì  in ambient  e  laural  cun  250 g.  de  sucher
e  la  scorsa  d'un limun  agiungi  4  russ  d'eou  vun a  la  volta, lauraa  ben ben  e  pian  pianin met  den i  4  ciar  d'oeu  muntà   a née.
setacia  den  120  g.  de  farina  e  120  g.  de    fecula  da  patati e 'na  bustina  da lievitu  vanigliaa.  mescula tantu  e poeu mett  in du 'na  teglia imburaa.
180  gradi per 50  minut.

hu faa un sogn

hu  faa  un sogn
seu  un  Can
cureu  pusé  forti  dul tram
sensa  fadiga   sulteu  via  i  caa
ul  Seves  'l'ea  'na  rungieta
i  cagn  ma  curean  a dree
mangià  ga  n'ea  a  sée
seu  ul padrun  dul  mundu
ma ul sognn  le   finìi  el  ghe  poeu
 sonn   no un Can  ma  una rasa  grama
ca  l'è  dree   ruinà  ul  mundu
g'hà  pias  fa i guer
masà  e  turturà
rubà  e  imbruià
ma  tuca  imparà  almen  a  rubà

Giorgina






Cuma 'na cuaa da Bilò ca cipis

i fioeu suta a i finestar murmuran

intant ca ma 'ndurmentu 'na matina da dumeniga

dopu ,na noci pasàa e pinsà a la sira prima

pasà sita sul parapetu dul canal suta a caa sua

cui man ca sa tuchea

e l'acqua ca la curea liscia versu Buscaa

Giorgina

do mes calsett bianchi cun una riga verda

poeu comunciea i gambi

ca 'n dean a perdas 'n duna sutana quadretaa

'na camiseta bianca a mes manighi

suta a dù ogi negar me 'l carbun

Giorgina

te me rubàa ul sogn

ul to parlà l'è 'na musica

'lm tò silensi 'n bursa da tesor




































































Giorgina






Cuma 'na cuaa da Bilò ca cipis

i fioeu suta a i finestar murmuran

intant ca ma 'ndurmentu 'na matina da dumeniga

dopu ,na noci pasàa e pinsà a la sira prima

pasà sita sul parapetu dul canal suta a caa sua

cui man ca sa tuchea

e l'acqua ca la curea liscia versu Buscaa

Giorgina

do mes calsett bianchi cun una riga verda

poeu comunciea i gambi

ca 'n dean a perdas 'n duna sutana quadretaa

'na camiseta bianca a mes manighi

suta a dù ogi negar me 'l carbun

Giorgina

te me rubàa ul sogn

ul to parlà l'è 'na musica

'lm tò silensi 'n bursa da tesor




































































Giorgina






Cuma 'na cuaa da Bilò ca cipis

i fioeu suta a i finestar murmuran

intant ca ma 'ndurmentu 'na matina da dumeniga

dopu ,na noci pasàa e pinsà a la sira prima

pasà sita sul parapetu dul canal suta a caa sua

cui man ca sa tuchea

e l'acqua ca la curea liscia versu Buscaa

Giorgina

do mes calsett bianchi cun una riga verda

poeu comunciea i gambi

ca 'n dean a perdas 'n duna sutana quadretaa

'na camiseta bianca a mes manighi

suta a dù ogi negar me 'l carbun

Giorgina

te me rubàa ul sogn

ul to parlà l'è 'na musica

'lm tò silensi 'n bursa da tesor






















































Giorgina






Cuma 'na cuaa da Bilò ca cipis

i fioeu suta a i finestar murmuran

intant ca ma 'ndurmentu 'na matina da dumeniga

dopu ,na noci pasàa e pinsà a la sira prima

pasà sita sul parapetu dul canal suta a caa sua

cui man ca sa tuchea

e l'acqua ca la curea liscia versu Buscaa

Giorgina

do mes calsett bianchi cun una riga verda

poeu comunciea i gambi

ca 'n dean a perdas 'n duna sutana quadretaa

'na camiseta bianca a mes manighi

suta a dù ogi negar me 'l carbun

Giorgina

te me rubàa ul sogn

ul to parlà l'è 'na musica

'lm tò silensi 'n bursa da tesor





domenica 8 febbraio 2015

i temp indree


                                                                 

ma  ragordu  i tempi  indree
la prima  acqua  viscì
i prim  sauneti
la prima banana
la prima uga
la  brilantina  per  petenas
i  donn  cun la  caviglia  bindaa
i primm cascè pe 'l mal  da  cooeu
l leter pà  'ndà  a  militar
i  santin  ca  ta  dean in premiu  a  l'uratori
i  mercanti  cà  vignean in ca  a  vendi ERMENEGILDO   ZEGNA
la  Madoona  cà  girea e la ciamean  Madona  vagabunda
'na  sira pa'  curti
i  sir  suta  al portigu  a  fa  i stechi
a  mila par  voeulta

mercoledì 4 febbraio 2015

Magii de Parì



                                                                  


Al Parc Montsour

a Parì in dul tredicesim

camina un vegiu silensius

i tò pulmunn 'n da butà

g'ha dì ul dutur

ul vegiu sa ferma e 'l ridi

'l spua i pulmun in tera

poeu 'l sa sbasa e i a tira su e i a buta in dul cestin

ecù tutt a postu

ma a l'impruvis i pulmun vegnan foeura e sa metan a balà

ridendu me i mati a crepappel

i van in dul vegiu e ga dann  'na sigareta

fuma fuma ca ta fa ben

grasie

figuras

scundu fra i roeus

ul gubetu de Rue Quincampax

l'ha vistu tucoss e 'l guarda ul vegiu 'ndà via

ul vegiu l'è Jaques Prévert

e anmò incoeu

con ul coeu pien da puesia

'l vedu caminà sensa fas vidé

in mesu ai sogn de Parì

in mesu ai so magii




SIMONE M.

Maria Mora


Il Comandante dello Stormo,di tutto lo stormo compresi i moto-risti e i furieri, era Marino Marini che alloggiava con gli Ufficiali di terra all'Albergo Gatelli di Castano.

Maria Mora viveva con loro,mangiava e dormiva all'Albergo e ogni tanto passeggiava in piazza vestita che sembrava una del cinema,con le calze di seta invidiata e odiata da tutti.

Quando arrivò il 25 Aprile invece di essere tosata sul balcone del Zorzoli come troia,con la piazza piena di gente urlante come tutte le altre,passeggiava lungo la piazza vestita della festa, perché era la sorella del Cesare,famoso partigiano che per pochi giorni comandò il Paese.

La videro sempre in compagnia del Francese,che in quei giorni

divideva il potere con il fratello.

Poi il Francese fece una brutta fine perchè quando tornò in Francia lo impiccarono per un omicidio commesso anni prima.

Poi Maria Mora non si vide più in paese,svanì nel nulla.

Cesare il Partigiano diventò il Presidente del Circolo.

lunedì 2 febbraio 2015

salsa verda


                                                                            

Pasà  al  setacc  un  cicin  da  mollica  da  Pan  bagnàa  da  Asèe,  tria una  Aciuga  e un  cugià  da  Capperi,  dù  cugià  de  Presemul  u  'na  fesa  d'Ai, slunga  cun  Oli e  Asèe   secund  i gust.
Inscì  la  fea  me  mama  la  salsa  verda.

domenica 1 febbraio 2015

l'udur di tusann

l'udur  di  tusann
ca  san  da  sauneta
cun i man  niti
e  la  camiseta  da  cutun
cun i manighi   coeurti
un udur  ca 'l 'n  dea  e'l  vigniea
c'al  sa  sintia  pocu  ma l'ea  forti
l'udur  ca  'l ma  fea   divintà  matu
un udur  scundoeu.