Quei
pomeriggi di fine estate, quando non faceva più
tanto
caldo, che suonava la sirena e si doveva andare in cantina.
Ma
io e il mio amico Elio stavamo sulla ringhiera del secondo
piano,dove abitavamo noi, ad aspettare di vedere gli aerei, che
arrivavano su in alto in formazioni di cinque o sei, ed erano di
argento a vederli. Con i colpi della contraerea come batuffoli di
cotone tutti i giro.
Poi
il capofabbricato ci tirava giù a moccoli,minacciando le cose più
inverosimili pur di farci scendere.
Arrivavano
sempre da sud,e andavano verso Bresso.
Magari
dopo un quarto d'ora suonava il cessato allarme, e magari dopo un
tempo lunghissimo che non si riusciva a fare passare.
Un
giorno sentimmo le bombe cadere vicino, molto vicino, e quando
uscimmo nel mondo vidi, due case più in là, le macerie. Curiosi
andammo a vedere e vicino ad un contatore della corrente c'era un
braccio con la mano. Non avevo mai visto un contatore come era fatto
e
lo studiai, ma non capii niente.
Con
il mio amico Elio eravamo inseparabili, in classe assieme,
sull'ultimo banco assieme. Sapeva disegnare: con pochi tratti ti
faceva un aereo,un cane,un gatto,un asino. Con una matita in mano era
un Dio. Per me era un genio.
Ma
anche lui del contatore non ha capito niente.
Dopo
un paio di bombardamenti le bombe si avvicinarono al nostro
caseggiato, e presero in pieno una fabbrica che veniva subito dopo,
una fabbrica di ostie, e ci rimpinzammo come non mai di ostie.
Buonissime.
Incredibilmente
le rotaie erano libere e si poteva andare a Milano con il tram. Noi
si andava sempre a gratis, di dietro sotto alla perteghetta.
La
scuola (bombardata )fu dichiarata inagibile e per due mesi andammo a
scuola a Bresso, a piedi. Bastava partire mezz'ora prima.
Elio
aveva fatto un ritratto di un bambino,un biondino, e lui lo aveva
fatto diventare come una bambina con i boccoli e gli occhi più
azzurri di quello che erano, il disegno era piaciuto e allora ogni
tanto, quando il papà del biondino poteva, portava il biondino a
scuola con il calesse tirato da un morello, ci dava un passaggio.
Avevamo
10 anni. Sognavamo di essere grandi e di andare in guerra contro gli
odiati figli di Albione, Elio era Tenente pilota ed io sergente
maggiore ed ero un mitragliere di coda.
Al
sabato pomeriggio andavamo a vedere gli Avanguardisti davanti alla
sede del fascio esercitarsi con i fucili di legno, ed era bello
vedere quei giovani aitanti che stavano andando in guerra.
I
Giornali Radio parlavano delle nostre vittorie.
Si
diceva che il Piero,del secondo piano, non ascoltasse i giornali
radio, ma lui diceva che non era vero.
Per
rispetto verso il Popolo Greco,in Grecia le nostre forze armate
segnavano il passo ma, a giorni, il Duce sarebbe andato di persona a
guidare l'avanzata.
Intanto
io avevo sempre fame. Mia mamma mi diceva che io non sapevo cos'era
la fame, lei si che l'aveva provata e non era così. Ogni giorno un
panino: era questa la fame? E mi diceva di quando era bambina e
mangiava le radici delle piante.
Il
Padrone del calesse, che ogni tanto ci portava a Bresso, si diceva
che alla domenica facevano il risotto. Tutte le domeniche.
Il
Piero del secondo piano, quell'anno al 1° Maggio non andò a
lavorare. Si mise il vestito della festa e un garofano rosso sul
bavero e scese in strada,con la moglie e i due bambini attaccati alle
gambe per non farlo scendere. Sceso in strada,la sede del Fascio era
vicinissima, fu circondato da Militi che lo portarono in sede per il
bicchiere di olio di ricino. Dopo un paio d'ore
venne
a casa con la giacca sporca di sangue perchè il Piero aveva il
vizio di perdere sangue dal naso facilmente.
Il
giorno dopo andò a lavorare come al solito.
Oltreseveso
c'era la piazza della chiesa,con l'Oratorio, laChiesa, la Canonica,
L'Asilo e un grosso caseggiato. Subito dopo il ponte una strada che
poi girava a sinistra e andava alla Bicocca, ogni tanto andavamo a
vedere Giorgio Consolini che si allenava sui campi della Pirelli.
Quella era la riva che usavamo noi. E diventava un campo dove si
combattevano battaglie da cui dipendevano i destini del mondo, c'era
anche una innocua biscia che quando ci vedeva scappava dall'altra
parte del Seveso inseguita dalle nostre sassate.
Una
volta un reparto di soldati veri risalì la riva opposta
e
arrivati sul ponte il Tenente che li comandava guardando attentamente
la sua cartina chiese: che Paese è?
I
pescatori, due o tre, erano vicini al ponte,o sul ponte, ma di pesci
ce n'erano pochi, e piccolini.
Di
qua del Seveso c'era la nostra scuola, che finiva proprio contro
l'acqua, ma dalla scuola non si vedeva il
Seveso.
Il
Seveso era giù, molto giù, e sulle ripide rive si poteva cadere
dentro, ma non ci era mai caduto nessuno.
Le
rive erano boscose, e fornivano i legni diritti per fare le spade
che servivano per armarci decorosamente.
Abitavamo
in via De Calboli, e avevamo formato la banda della via. Parallela a
noi, dove passava il Tram, c'era la via Ornato, che aveva la sua
banda.
Ma
non venivano al Seveso, non era nel loro territorio. Loro per giocare
usavano il tram, e ci giocavano alla grande, c'era un ragazzo che
riusciva a salire sulla perteghetta e si sedeva tranquillamente sul
tetto.
La
banda di via Ornato era tosta, ce n'erano due che incutevano paura.
Ma noi avevamo Drumm. Una stazza enorme e uno sguardo truce,
bisognava non farlo parlare se no ridevano tutti per una voce da
bambina,che da un faccione così faceva senso.
Dal
Fascio in là era il nostro territorio, dal Trani in qua della banda
della via Onorato.
Poi
la guerra ha scombussolato tutto.
Abitavo
in via De Calboli, la prima casa dopo il fascio, sessanta famiglie,
al secondo piano, Si entrava nel cortile, passando davanti alla
portineria si salivano le scale coperte che ad ogni piano c'era la
ringhiera di destra e di sinistra,io a sinistra, dalla ringhiera la
porta d'entrata e si entrava in cucina con un tavolo quadrato e la
dispensa e un lavandino. Una cucina economica con la bombola del gas
sotto. Dirimpetto una porta portava in stanza, un' altra porta in
bagno, con i servizi: water e lavandino. Dalla finestra del bagno
guardavo dentro al giardino dell'osteria, con il gioco delle bocce
dove ogni tanto ci giocava mio padre e io lo guardavo dalla
finestra. L'osteria era proprio davanti al fascio,dall'altra parte
della piazzetta. L'osteria vendeva anche le Agrette, gazose con il
tappo di vetro, una pallina di vetro che si trovava dentro alla
bottiglia.
A
scuola l'ora di musica la facevamo in uno sgabuzzino
lungo
con le scope appoggiate contro le finestre,si cantavano le canzoni di
guerra, oltre a Giovinezza “ andar pel vasto mar”, “faccetta
nera”, donne e motori”
“Roma
che sorgi”, “decima MAS” e altre. Tutte belle, bellissime. Però
sapevano di candeggina,per via dello sgabuzzino.
Le
botteghe si trovavamo in via Ornato, e mia mamma mi mandava,quando
era proprio festa, a comperare mezzo etto di Zola,senza carta! Mi
diceva! La carta d'oro, come veniva chiamata la allumina che
ricopriva il zola, pesava tanto e se ti dava il Zola con la carta
d'oro del mezzo etto rimaneva poco.
Qualche
bottega ce la avevamo anche di qua: una bottiglieria,un carbonaio
che vendeva il carbone a sacchi,due tipi:l'Antracite e il carbone
normale, e la carbonella. In una bottega che vendeva di tutto meno
che gli alimentari, io e l'Elio organizzavamo dei furti difficili. Il
nostro bersaglio preferito era una cassetta su in alto con un nome
stranissimo, sull'ultima fila, tutta spostata a sinistra, difficile
da prendere. Si sceglieva il bersaglio più difficile. Elio
parlava,(sapeva parlare)e quando il proprietario si allontanava, io
come un gatto, salivo aprivo la scatola prendevo due pezzi della
“roba”. Ecco perchè si chiama rubare, anzi dovrebbe essere
robare.
Il
prodotto erano delle tavolette che accese con un fiammifero da una
parte bruciavano con una fiamma azzurrina e duravano mezzora.
Servivano per i fornelletti da campo. Era il miglior bottino della
bottega.
Ogni
tanto si andava a Porta Volta,si saltava giù in via Farini e si
entrava a gratis allo Smeraldo,che era più facile di quello che si
pensava, e si andava nei camerini dove c'erano le donne nude,o
quasi, e i Maghi che provavano i numeri, e i veri Pompieri in divisa.
Niguarda
era proprio un paese, con la piazza della chiesa e l'oratorio, e
l'Asilo infantile con le suore grasse che avevano una maniera di
usare il manico della scopa non professionale, e ogni tanto portavo
i segni sulla testa. Aveva un fiume,il Seveso, che era nostro, a
quando sentivo parlare del Seveso da gente che non era mai stata a
Niguarda provavo un senso come di perdita, come poteva mia Zia, che
abitava a porta Romana in via Amatore Scesa, parlare del Seveso?
Che ce lo avevamo noi di Niguarda ?